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Secondo Linda Feki, la miglior cosa per un musicista è sentirsi «veramente nudi, autentici, sinceri». Per questo le sue canzoni sono così sensuali. Per questo le basta una piccola nota sussurrata per creare un’intimità così particolare. Con il progetto LNDFK sta portando avanti un percorso molto personale ed elegante, che parte dal suo amore per il jazz e finisce nelle versioni più oblique della black music. Immagine dopo immagine, città dopo città. L’abbiamo intervistata.

Quando hai iniziato ad ascoltare musica nera?
Non so dirti bene ma, fin da bambina, non ho fatto altro che ascoltare black music. Non ho ricevuto grandi influenze dall’ambiente in cui sono cresciuta o dalla mia famiglia ma, ad un certo punto, ho iniziato ad appassionarmi al jazz. Da lì sono arrivata alla musica brasiliana, poi al soul, all’hip hop e a tutto quello che può rientrare sotto la definizione di musica nera.

C’è stato un disco in particolare che ha dato il via al tutto?
La musica è sempre stata una costante della mia vita. Non c’è mai stato un momento in cui non cantassi, ho una foto di me bambina, a quattro anni, dove ero già sul palco e con il microfono in mano. Ricordo, però, che avevo questo live di Ella Fitzgerald e continuavo ad ascoltare in loop How high the moon. Morivo dalla voglia di fare anch’io quelle cose con la voce. Ho iniziato il mio percorso di studi, prima canto, poi piano, l’armonia, ecc.

In un’intervista dici che New York ti ha aperto la mente, hai studiato lì?
Non ci sono andata per studio, ma ho vissuto lì per un mese. Avevo il desiderio di vedere da vicino con i miei occhi tutto quello che ho sempre amato, è stato ugualmente molto educativo. Seguire le jam jazz, andare ai concerti tutte le sere, mi ha dato una tale botta d’ispirazione, un’energia incredibile che poi è durata per mesi. È una delle cose che mi manca di più, qui, in Italia.

Come nasce un tuo brano?
Non c’è una regola. Nel progetto LNDFK ci siamo io e Daryobass, a volte mi faccio ispirare dai suoi beat, altre volte mi registro da sola delle note vocali sul cellulare con il ritornello già completo, oppure faccio una pre-produzione su GarageBand, altre volte il pezzo nasce direttamente mentre suoniamo insieme. Spesso basta anche solo un’immagine a dare vita a una canzone.

Nel video di Souleyes questo procedere per immagini è molto presente.
È il primo e unico video che abbiamo fatto. È stato realizzato utilizzando scene girate da Richard Kern e altro materiale di archivio. In futuro mi piacerebbe riuscire a portare avanti questo discorso da sola, con i miei mezzi. Il mio desiderio è proprio quello di unire tra di loro le immagini, i dettagli, o anche solo i più piccoli ricordi che mi ispirano in fase di creazione musicale. Riuscire a connettere più sfere insieme – a maggior ragione attorno alla figura del donna – è veramente la cosa che mi completa di più.

Una delle immagini sicuramente più forti è quella del seno nudo sotto la t-shirt “Feminism” perché contrappone un tema decisamente serioso ad un mood più da miss maglietta bagnata. Va letta in modo ironico?
Assolutamente, è chiaro. Ironia a parte, però, mi interessava che da quell’immagine nascesse la domanda: qual è il ruolo della donna oggi? Il video gioca su tutta una serie di contrasti, non vuole dare delle chiavi di lettura definite ma vuole fornire tante suggestioni diverse.

La sensualità è sicuramente una componente importante nelle tue canzoni.
È vero, è molto importante ma non è qualcosa che ricerco consapevolmente. È come se mi facessi guidare dal mio corpo, dalle sensazioni che percepisco ascoltando un beat o seguendo le vibrazioni della mia voce. Ho sempre trovato una connessione molto forte tra sesso e musica, infatti il modo migliore per spiegare cosa significhi suonare a chi non l’ha mai fatto è usare metafore sessuali: sono due cose molto simili, entrambe istintive e creative, seppur inserite in un ambito, in un certo senso, razionale.

Quali sono le voci che rappresentano meglio la tua idea di sensualità?
Di sicuro Nai Palm, penso sia una delle voci più belle che abbia mai ascoltato, oltre ad avere una personalità straripante, è l’immagine della libertà. Mi piace molto Solange, la sento molto vicina al mio modo di esprimermi, la trovo sensuale, pur essendo così poco ordinaria. Infine Terrace Martin, lo adoro.

Pocket P Song, il tuo ultimo singolo, affronta il tema del ruolo della donna nel mondo musicale di oggi. Ne vogliamo parlare?
Pocket P Song raccoglie molte situazioni che mi sono accadute realmente: il jazzista che prima si dimostrava disponibile e attento alla mia voglia di imparare ma, poi, una volta capito che il mio interesse non andava oltre quello puramente musicale, cambiava anche la sua voglia di insegnarmi cose nuove – Why you don’t wanna teach me? Why u don’t wanna play Parker? – oppure il club jazz dove, dopo non aver accettato un invito a cena da parte del proprietario, sono stata subito rimpiazzata da un cantante maschio. Non racconto nulla di nuovo ma, così come nella musica, accade anche in altri ambiti della vita e, più in generale, del mondo del lavoro.

Quando si affrontano questi argomenti il commento più frequente da parte delle musiciste è raccontarti quanto sia faticoso essere considerate semplicemente per il proprio talento, prima c’è sempre un giudizio estetico.
Esatto. Sia chiaro, anche quella è una componente importante, uno esprime molto della propria musica anche attraverso il proprio corpo, fa parte della tua personalità artistica, ma ovviamente c’è anche altro. In Pocket P Song c’è proprio il desiderio di essere valutati come musicisti. Sono molto orgogliosa della mia curiosità, della mia voglia di imparare direttamente dalle persone e non solo dai dischi, capisci la tristezza nell’accorgerti che un tuo collega ti sta ascoltando per tutt’altre ragioni?

Da songwriter qual è il tuo limite più grande?
Sono molto autocritica, dovrei imparare ad esserlo un po’ meno (ride). Detto questo, di limiti ne ho tanti e sono principalmente di natura tecnica. Voglio arrivare a trasportare esattamente le idee che ho in mente sulle mie mani e sulla mia voce. Per mia fortuna riesco a immaginare bene una canzone nei più minimi dettagli, voglio migliorare tutto il resto.

Hai cambiato città molte volte, non hai ancora trovato quella che ti rappresenta al meglio, quella dove mettere radici?
No, non ce l’ho ancora. Dopo un periodo a Parigi – di cui mi ero completamente innamorata – ci siamo dovuti trasferire a Milano. Qui c’è il nostro manager, il nostro booking, devo dire che mi trovo molto bene. Ma a me tutto quello che serve è una scrivania dove appoggiarmi con il mio il laptop e la mia scheda audio. Qualunque posto del mondo, in questo momento, sarebbe ok.